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Il mio intervento a “Internet of Everything: l’esperienza dell’utente al centro di tutto”

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Ieri sono stato invitato a partecipare al panel Internet of Everything: l’esperienza dell’utente al centro di tutto al Todi Appy Days.

Dopo un’analisi molto interessante e condotta in maniera chiara e accessibile su tecnologie e potenzialità dagli altri panelist, che per forza di cose ha toccato solo la punta dell’iceberg dell’argomento, l’ottimo moderatore Alessio Jacona mi ha passato la parola con questa domanda: “macchine che parlano tra loro e non parlano con noi: c’è un pericolo?

Se il pericolo è la rivolta delle macchine, la cosa più vicina a Terminator che gira nelle nostre case è un Roomba. Fattore di timore: “un calcio e si ribalta“. Sulle self driving car sarei più inquieto. Sul controllo di rotte aeree, semafori, erogazione energetica, pacemaker collegati a internet ci si può preoccupare.

Ma in realtà non ci sono motivi per farsi prendere dal panico. Dai tempi di Socrate (la scrittura distruggerà l’umanità minandone la capacità di ricordare) ai primi commentatori ottocenteschi (i passeggeri dei treni a vapore moriranno soffocati, perché la vertiginosa velocità di 30 chilometri all’ora gli impedirà di respirare), l’introduzione di nuove tecnologie ha sempre visto queste due fasi:
1) moriremo tutti a causa di questa diavoleria tecnologica
2) non possiamo vivere senza

Sarà così anche per l’IoT.

Cosa accadrà? Un’idea possono darcela una serie di ricerche recenti, che non c’entrano molto con l’internet of things, ma ci danno ottimi spunti.
L’introduzione degli smartphone e delle app di navigazione, Google Maps su tutti, ha trasformato nel bene e nel male il nostro modo di rapportarci con lo spazio e pensare a come muoverci in esso.

Tanti anni fa, partii da Roma in auto, feci un giro delle maggiori cattedrali gotiche francesi, passai per Mont Saint Michel e la foresta di Broceliande. Oggi che senza Goolge Maps non trovo la porta di casa mia, mi chiedo come ho fatto a raggiungere ogni meta senza perdermi armato solo di una mappa cartacea. E’ un problema comune. Il vantaggio di Google Maps e altre app di navigazione è che ci permettono di scoprire il territorio intorno a noi, magari vendendolo arricchito da informazioni che uno stradario non riporta. Lo svantaggio è che perdiamo la capacità di orientarci e ragionare in maniera spaziale, demandando questa funzionalità che era del nostro cervello all’intelligenza nella rete. Questo non è un problema solo per il movimento nello spazio, ma anche per il movimento nella nostra testa, la capacità di ordinare pensieri e ragionare.
Non è un bene o un male, semplicemente è. Quanti di voi si ricordano un numero di telefono?
Il cervello è un muscolo: quando smettete di usarlo, perdete funzionalità.

L’internet of things oggi è solo una promessa vaga. Ci sono una serie di device intelligenti, ma per la maggior parte comunicano con noi, non tra loro. Siamo noi l’hub che fa da tramite tra i vari pezzi.
Quando le macchine comunicheranno, ma soprattutto prenderanno decisioni, tra loro e ci mostreranno solo il risultato, noi saremo esclusi da una conversazione, cioè da un processo, e poi saremo disabituati a esserne parte.
Detta così, sembra una minaccia, ma come ho detto, è la normale influenza della tecnologia sull’umanità.

E’ necessario, o meglio sarebbe opportuno, essere consapevoli di un paio di cose.
Le macchine prendono decisioni in base a regole. Chi programma queste regole? Anche dietro a un esempio scemo tipo l’agenda che comunica i nostri impegni all’armadio, che manda alla lavatrice gli abiti più adatti per gli appuntamenti del giorno dopo in modo che li troviamo pronti la mattina prima di uscire c’è un atto che non esito a definire politico: la decisione e poi la programmazione da parte di qualcuno di quale sia l’abito più adatto per ogni occasione.
Le decisioni vengono prese in base a informazioni. Chi decide quali dati devono essere raccolti, come devono essere processati e analizzati, come vengono trasformati in informazioni? Chi garantisce che i dati siano raccolti correttamente? Che siano raccolti solo quelli che servono? Che vengano interpretati correttamente?
Sono questi i discorsi che avvengono tra le macchine, e prima che le macchine parlino tra loro, da cui verremmo esclusi e che non saremo più abituati ad affrontare.
Di nuovo, non è un campanello d’allarme, è come vanno le cose.

Delegare parte delle nostre funzioni cerebrali alle macchine ci renderà meno capaci di fare qualcosa, ma ci lascerà tempo ed energie per fare e pensare ad altro, tra cui cose che prima non si potevano fare o pensare.
Fare e pensare cosa?
Alcuni dovranno pensare a cercare un nuovo lavoro.
Molti avranno più tempo per stare su Facebook o quel che sarà.
Pochi avranno ispirazione, volontà, tempo, energie, strumenti e opportunità dall’esterno per poter creare qualcosa di nuovo e far fare un altro passo avanti all’umanità, ricominciando il processo “moriremo tutti – non possiamo vivere senza.”
Al tavolo con me c’erano tra gli altri il CEO di OpenPicus Claudio Carnevali e la CMO di Atooma Gioia Pistola. Loro, e altri come loro, sono contemporaneamente persone che “hanno fatto” e persone che hanno creato strumenti che permetteranno ad altri “di fare”. Va bene così, è normale così: abbiamo tempo e risorse, poi ognuno le usa come vuole e giudicare ci porterebbe alla classica domanda se trae più godimento Socrate dal parlare un’ora di filosofia o il contadino a giocare a carte per un’ora.

Tutto sommato a noi bastano un Henry Ford, un Tim Berners-Lee, uno Steve Jobs, un Mark Zuckerberg (e i tantissimi, importantissimi emuli e imitatori che seguono i loro passi e la loro ispirazione) per andare avanti. Gli altri sono utenti.
Se fossero utenti consapevoli sarebbe meglio.


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